lunedì 26 novembre 2012

BETTA CUCINA: PASTA E CECI URGENTE


Io non vado proprio fortissimo in materia d'autostima, ma se c'è una cosa che mi piace di me è il mio nome. Come si può facilmente immaginare, Betta è solo la seconda parte, ed è quella che meglio mi s'attaglia. Io non sono un'Elisa, meno che mai un'Eli (sparo a vista a chiunque mi chiami così, cosa che al lavoro fanno quasi tutti; ma non sanno che ho il bazooka nell'armadietto e che ogni giorno gli sussurro parole dolci per tenerlo buono): io sono una Betta, in alternativa una Betty per chi mi conosce da tanto tempo visto che da piccola mi chiamavano così tutti, anche in famiglia. Mai stata Eli, mai stata Elisa per nessuno. La parte Elisa non è mai proprio entrata in uso, quindi la sensazione non dev'essere solo mia: nella mia immaginazione, infatti, Elisa è nome da creatura sottile, bionda e pallida, dai lunghi capelli lisci e biondi. Betta invece me la figuro mora e ricciolona, una ragazzotta florida e rubiconda. Come me, insomma. Sono pronta ad accettare critiche da parte di tutte le Elise mediterranee e le Bette eteree, ma non mi convinceranno del contrario.
Il mio nome è capitato per caso. La storia familiare narra di un lungo bisticcio tra i miei genitori e mia sorella per decidere come chiamarmi, durato 9 mesi e terminato senza una decisione finale ma solo restringendo il campo a una rosa di tre nomi, uno bello, uno bruttino e uno orrendo: non ve li svelerò qua ché non sarebbe carino se il vostro fosse uno degli ultimi due. Accade poi che in una notte d'estate un bel fagottone di tre kg e mezzo decida di nascere in tutta fretta (rischiando d'essere scodellata nell'ascensore dell'ospedale); la sorella allora ottenne viene condotta a vedere il fagottone, e quando le viene chiesto come la vuole chiamare se ne esce con un nome regale, di cui però nessuno aveva fatto menzione nei 9 litigiosi mesi in cui il fagottone cresceva nella pancia della mamma. Io poi da grande, grata ma curiosa, ho chiesto a mia sorella perché mai avesse scelto questo nome, ottenendo l'illuminante spiegazione "boh, m'è venuto così". Sia benedetta l'ispirazione del momento della sorellona, quindi: poteva andarmi parecchio peggio.
Portando dunque questo nome bello e importante, mi sono trovata negli anni a fare cose stupidissime, tipo leggere biografie di regine e imperatrici omonime (se state per chiedermelo, confesso spontaneamente: sì, ho anche visto tutti i film di Sissi, se volete li cito a memoria), o cercare tracce del mio nome nell'arte.
Dalla musica ho avuto poche soddisfazioni: a parte la canzone del cui 45 giri vedete la copertina in apertura, brano che nessuno ricorda (compresa io) e che è stato talmente celebre da non trovarsi nemmeno su iutùb, l'unica altra menzione di cui io sappia è in un pezzo di Loredana Berté, che dice testualmente "sente freddo Elisabetta, si buca e s'inguaia". Altro che Margherita è tutto ed è lei la mia pazzia, altro che Sara svegliati è primavera, altro che oh please stay with me Diana: una citazione per Elisabetta, ed è una che si droga. Alé. Né va meglio con i diminuitivi; i Kiss a onor del vero tirano fuori un gran bel pezzo, in cui però la povera Beth se ne sta a casa a fare la calzetta mentre egli se ne rimane in giro a suonare tutta la notte prendendola abbondantemente per il culo: just a few more hours and I'll be home to you, come no, sospira la poverina mentre mette su i punti per tricottare un altro paio di pedalini per 'sto stronzo.
Delusa, ho smesso di cercare mie omonime in musica e sono quindi passata alla letteratura: qua ci sarebbe molto da raccontare, ma per brevità ci limiteremo a un solo traumatico romanzo, anzi a un romanzo e al suo seguito.
Due libri nocivi alla salute mentale, che nessuna ragazzina dovrebbe leggere.
Due libri che ti fanno sperare che "Fahrenheit 451" un giorno sia reale e si cominci da loro.
Due libri che nel frattempo che aspettiamo vanno comunque bene per accendere il caminetto.
"Piccole donne" e "Piccole donne crescono".
Ora lo so che tra i miei venticinque lettori ci saranno delle fanciulle che hanno amato tanto questi due romanzi e so che me le inimicherò, ma davvero, son due libri insopportabili. Chi non li ha invece mai letti si fermi qui, perché sto per riassumervi la trama... che consiste più o meno in: la sorellina leziosa, la sorella grande giudiziosa, la sorella maschiaccio su cui tutte puntiamo perché sembra fichissima e invece finisce a sposare un vecchio e già ce l'immaginiamo quando gli dovrà cambiare il pannolone e, infine, la sorella Beth. Beth che è il personaggio più noioso della letteratura terrestre (su quella di altri pianeti non sono preparata - poesia Vogon a parte - ma secondo me si difende bene), Beth inutile e asociale, che come unica attività in tutto il libro ha quella di consumarsi pagina dopo pagina. Capirete che a una girano anche un po' le scatole, ad avere un'omonima così.
Oltretutto, l'una in questione è famosa per ammalarsi di rado ma per ammalarsi sempre in un unico modo: perdendo la voce e con una tosse da tirannosauro, udita dai vicini nel raggio di almeno un km e, vuole la leggenda, anche in Tunisia quando c'è maestrale. Capirete che alla stessa una le scatole centrifugano, quando tossisce come se fosse in punto di morte al pari della sua omonima. Una non fa gesti scaramantici solo perché non è superstiziosa e non è maschio, però le girano, tanto.
Tutto questo preambolo per dire che la vostra blogger scema preferita da quattro giorni è afona e ha una tosse epocale, che in seguito a quattro giorni di cure sta nettamente peggiorando. Il progetto per la giornata di oggi (scrivo di notte e quindi è già oggi, lunedì) è andare dal medico e farmi dare roba più potente; il progetto per stanotte sarebbe quello di riuscire a respirare.

E quindi adesso vado in tutta fretta a raccontarvi la ricetta della mia pasta e ceci, che ho preparato per cena.
Vi chiedete che accidenti c'entri? C'entra, c'entra. Capirete dopo, prima la ricetta: che è molto semplice, e come tutte le ricette semplici richiede ingredienti di qualità.
Punto fondamentale e imprescindibile: dimenticatevi i ceci in scatola. Se volete fare una pasta e ceci veramente buona buona partite dai ceci secchi, non vi offro nessuna alternativa. E teneteli a bagno per almeno una dozzina d'ore, non di meno. Certo, questo implica che dovete sapere il giorno prima che avrete voglia di pasta e ceci il giorno dopo: ma personalmente non esiste un giorno in cui non abbia voglia di pasta e ceci, quindi il problema non si pone.
Una volta ammollati, mettete i ceci a lessare in acqua fredda, meglio se in una bella pentola di terracotta, aggiungendo un rametto di rosmarino, uno spicchio d'aglio e sale e/o dado vegetale a piacimento. Ci vuole un bel po' di tempo: calcolate un'ora e mezzo, anche due. Se dopo due ore di cottura i ceci non fossero ancora morbidi, arrendetevi, non si ammorbidiranno mai più, e la prossima volta cambiate marca. Non buttateli, però: tritateli, fatene polpette e datemi la ricetta.
Diamo invece per scontato che i ceci siamo morbidi e cotti al punto giusto. Toglieteli dalla pentola con brodo e tutto, e nella stessa mettete a soffriggere in olio extravergine d'oliva un trito di carota, cipolla, sedano e aglio; aggiungete i ceci scolati, fateli insaporire nel soffritto, aggiungete il brodo e un'ideina appena di conserva di pomodoro, portate a ebollizione, buttate la pasta (io metto tagliatelle spezzate ma va bene anche pasta corta da minestra), fate cuocere e servite rovente come solo la terracotta sa fare. Una spolverata abbondante di pepe e un generoso giro d'olio buono direttamente nelle scodelle sono tocchi finali talmente impliciti che io non ve li sto nemmeno dicendo.
 

Ieri sera quindi servo la mia bella pasta e ceci a un marito preoccupatissimo per il rapido declino fisico della sua povera consorte, la quale da quattro giorni dorme - poco - tra un attacco di tosse e l'altro seduta sul divano, espone due bagagli da stiva sotto gli occhi, ha il colorito di una mozzarella scaduta già da una settimana e soprattutto fa tremare le mura con la sola forza dei polmoni. Meno male che il marito ha il sonno pesante e la notte ronfa beato mentre io mi abbrutisco (vi risparmio i dettagli, fidatevi sulla parola). Il peggio di me tuttavia ieri l'ho dato nel pomeriggio, quando il marito era sveglio e s'è spaventato sul serio. Ora io vi dico la verità: sono femmina perciò non facile alle lamentazioni fisiche, ragion per cui vi confesso che non sto davvero malissimo; se la tosse mi lasciasse dormire sarebbe appunto solo tosse, roboante ma niente di grave. E tuttavia capisco che sentita da fuori faccia effettivamente paura, così ci marcio un po', molto più della Beth del romanzo, che moriva e pareva pure contenta.
A cena stavo quindi dettando le mie ultime volontà, compresa la destinazione all'amato sposo dell'avanzo di pasta e ceci di stasera. Il dialogo s'è svolto circa così:
Io, drammatica: "sarà l'ultima cosa che mangerai fatta da me... ché poi tu non sai neanche la ricetta..."
Lui, pronto: "l'hai scritta sul blog?"

Capito, adesso?
Ora posso morire, eventualmente, senza rimorsi.
Buonanotte.